martedì 29 settembre 2009

La sconfitta di Teutoburgo

In questi giorni del mese di settembre cade una delle date più note della storia romana, che anche se al di fuori del periodo a cui noi di solito ci interessiamo, credo meriti la nostra attenzione.
si tratta della famosissima sconfitta della battaglia di Teutoburgo, avvenuta esattamente duemila anni fa e punto di partenza, secondo molti storici, della fine dell'Impero Romano, come si era conosciuto fino a quel momento.
Siamo nel 9 d.C. quando Publio Quintilio Varo si trova, con tre legioni, nel suo accampamento estivo nel mezzo delle terre ad est del Reno, territorio appena esplorato, in pieno possedimento Cherusco.
Era pratica comune lo spostare legioni durante il periodo estivo per mostrare la forza di Roma alle popolazioni assoggettate, specie quando le popolazioni non erano ancora completamente domate come i Cheruschi. In questo il suo predecessore, Saturnino, era stato più cauto considerando poco adatta la tattica del pugno contro pugno con popolazioni agguerrite e gelose della propria libertà, ma Varo era di un'altra pasta e preferiva agire con spietatezza e ferocia, come aveva già mostrato in Siria, dove, per piegare gli spiriti ribelli aveva fatto crocefiggere 2000 ribelli. Inoltre lui contava sulla vicinanza dei nobili cui aveva promesso cariche di prestigio e ricchezze, e del principe Cherusco, Segeste, padre di Armiliano che per i suoi meriti aveva meritato la cittadinanza romana.
Oramai l'inverno è alle porte e Varo si trova a dover prendere una decisione. Dovrebbe tornare all'accampamento invernale dove lo attendono altre due legioni, ma viene avvicinato da Armiliano, figlio del principe Cherusco e tribuno alla testa di un contingente di cavalieri germanici ausiliari al servizio di Roma. Questi gli dice che nelle terre del nord sarebbe scoppiata una rivolta che richiede l'intervento delle sue truppe, e Varo, prima tentenna poi accetta di mettersi in marcia seguendo il nuovo percorso preceduto proprio da Arminio e dal suo contingente.
Alla testa di tre legioni, la XVII, la XVIII, XIX, tre Alae, sei coorti per complessivi 15/20000 soldati e circa 4/50000 unità tra cavalli ed altri animali da traino, Varo si incammina verso nord, attraverso boschi fitti e scuri, sotto un tempo inclemente e nemico della truppa. L'enorme corteo procede a stento nel terreno paludoso.
E' il 21 di settembre quando scatta l'imboscata di Arminio e delle popolazioni germaniche, che piombano sui soldati romani da ogni parte, protetti dal folto della foresta.
La struttura del terreno, le difficoltà ambientali e la formazione del corteo impediscono ai legionari di serrare i ranghi per difendersi: è una strage, con i romani alla mercé dei loro carnefici. Eppure si continua a combattere per quattro giorni, sia contro guerrieri Cheuschi che contro cavalieri ausiliari di Roma passati al nemico.
Cassio Dione ci racconta che Varo riuscì nei primi due giorni ad erigere un campo fortificato, ma fu tutto inutile, ed il quarto giorno le legioni e le truppe ancora fedeli a Roma erano quasi completamente annientate, le aquile simbolo delle legioni sottratte.
Varo si suicida con i suoi ufficiali, mentre Arminio irride il potere di Roma dall'alto del tumulo che sarebbe poi passato alla storia come la Selva di Teutoburgo. La testa di Varo venne spiccata dal collo e mandata in segno di vittoria a Maroboduo, principe dei Marcomanni e rivale di Arminio, mentre, racconta Svetonio, Augusto pare cadesse in una profonda frustrazione pronunciando la frase, "Quintili Vare, legiones, redde!"
Oggi ancora si indaga sui reperti di questa grande battaglia che a detta di molti segnò l'inizio del lento declino dell'Impero, e comunque fissò il confine del territorio germanico sulla linea del Reno , ma ancora oggi della sorte di tanti legionari si ha una visione più frammentata e romanzata di quello che sarebbe giusto. Speriamo che in futuro sempre nuove notizie emergano dal cumulo di reperti che piano piano vengono trovati ad Oberesch, presso l'altura di Kalkriese, nella Germania settentrionale, divenuta il sito preferito delle indagini sulla leggendaria battaglia.

martedì 15 settembre 2009

Le divinità minori protettrici dell'infanzia

Nella vita dei romani tantissime erano le divinità che ogni giorno si accalcavano attorno al loro agire, ognuna con un compito specifico e con suoi sacrifici per renderselo amico. Vi erano, è vero le divinità maggiori, che tutti potevano ossequiare nei templi stupendi che riempivano Roma, ma ve ne era una vera folla che non aveva tanta importanza da avere un tempio tutto suo e che però era presente nella vita di ogni giorno.

Ve ne erano anche di assolutamente riservati ai bambini ed alla loro vita:

NIMERIA veniva invocato dalle gestanti prima del parto, perché dea della matematica che aiutava nel conto dei mesi restanti al parto.

Sin dal momento del parto si invocava il nome di PARTULA, divinità la cui origine pare identificabile con quella della Parca Cloto, la dea UTERINA era assistente alla puerpera nel momento delle doglie, mentre si invocava la dea LUCINA per la nascita definitiva, cioè il momento in cui il bimbo “veniva alla luce”. Quest’ultima era conosciuta anche come CANDELIFERA e le si accendeva una candela votiva per ingraziarsela.

Appena nato interveniva il dio VAGITANO, colui che si occupava di far si che il bebè lanciasse il suo primo vagito, così da permettere l’espansione dei polmoni e la respirazione, mentre ALMA era colei che portava la vita. A questo punto subentrava la dea NUNDINA che si occupava della purificazione dei nuovi nati, mentre LEVANA era la fianco dei padri nel momento in cui riconoscevano il nuovo nato come appartenente alla famiglia.

Perché fosse sano nella culla si chiedeva l’assistenza della del CUNINA o CUBA, dea della tenerezza, protettrice dei lattanti, che veniva supplicata a lungo quando il pargolo era insonne e non faceva dormire, inoltre si occupava di tenere gli incubi lontani dal suo sonno, mentre la dea EDULICA o EDUCA era invocata perché alla madre non mancasse il latte; OSSILAO, si doveva occupare che le sue ossa crescessero sane e robuste.

RUMINA insegnava al pargolo a succhiare il latte, ma se il bimbo risultava inappetente si invocava l’aiuto di EDUSA, mentre per farlo bere si chiedeva aiuto a POTINA la quale badava che il bimbo non si strozzasse bevendo; erano sempre loro due che si occupavano di accompagnare il bimbo nello svezzamento.

FABULINUS era vicino alla sua bocca mentre iniziava a fare i primi versi intellegibili, dalla lallazione - ossia dal balbettio di sillabe ripetute dal neonato senza però formulare parole complete e sensate – al linguaggio parlato vero e proprio guidandolo nell’apprendimento della parola, mentre STATULINO gli era accanto nel muovere i primi passi perché non corresse pericoli mentre passava dal gattonare a camminare autonomo.

Quando il bimbo cominciava ad affrontare la vita PAVENZIA si occupava di proteggerlo dagli spaventi improvvisi, CARDA ne assisteva lo sviluppo fisico, STIMULA e SENTIA ne affinavano i sensi ed i ragionamenti, curandone l’intelligenza ed il raziocinio, la prima consapevolezza ed insegnandogli l’indipendenza.

Il passaggio vero e proprio dall’infanzia all’adolescenza avveniva sotto l’egida della dea IUVENTAS, assistita dai maschi, al primo apparire dei peli sul volto dal dio BARBATUS; mentre nelle femmine,al primo menarca, compariva anche la dea DRIA, signora della pudicizia, preceduta però da un sacrificio alla dea LIBERTINA, cui si immolavano i propri giocattoli con cui non si sarebbe più giocato in seguito.

A questo punto i pargoli erano oramai abbastanza grandi da passare sotto l’egida di altre divinità per la sfera adulta della loro vita, ma prima i genitori, nel momento in cui uscivano di casa, invocavano la protezione delle dee, ABEONA che ne proteggesse l’allontanamento, ed ADEONA, che li riconducesse a casa sani e salvi.

venerdì 11 settembre 2009

MERCURIO O ERMES?

purtroppo per quanto riguarda Mercurio, divinità a me molto cara ,si trova soprattutto la storia della sua controparte greca, Ermes, o Ermete, come si vuol dire, che però non è romanizzata e quindi rivolta a questa personificazione della divinità. quanto si sà è all'incirca questo:
Mercurio viene considerato il messaggero degli dei, figlio del dio Giove e di Maia, figlia del titano Atlante.
Per i Romani Mercurio era specialmente il dio del commercio e il suo nome si faceva derivare da merx (merce) e da mercari (commerciare). Per onorare questo dio a Roma fu fondato il collegio dei commercianti, i cui componenti si chiamavano mercuriales.
A Roma, un tempio a lui dedicato, venne eretto nel Circo Massimo sul colle Aventino, nel 495 a.C.
Il fatto che lo stesso dio protegga ladri, medici e commercianti indica ironicamente la loro considerazione presso il mondo classico.Solo in epoca imperiale, come attesta l'opera di Virgilio, mutuò dal suo corrispondente greco le funzioni di messaggero degli dei e di guida delle anime defunte.
su di lui ci giungono queste parole di un autore sconosciuto:
"Il Dio con altri dei e dee viveva sull'olimpo e con il suono della lira dilettava i loro convivi, ma ogni tanto svolgeva il compito di messaggero. Infatti dava gli ordine degli dei agli uomini e alle donne, applicava calzari alle sue scarpe e ale e appariva agli uomini. Una volta il dio Mercurio apparve al pio Enea e ammonì Enea, come il poeta Virgilio narra nella sua famosa opera: fonda una nuova Ilio sulle coste d'italia! Lascia la regina e il suo regno e obbedisci al fato!
Così Mercurio ottiene l'obbedienza: il pio Enea infatti lascia le coste dell'africa, con i suoi compagni e con il figlio Ascanio tocca la costa di italia e fonda una nuova città. Tuttavia Mercurio non solo è il messaggero degli dei. Gli abitanti di tutta l'arcadia dedicano a Mercurio, dio del commercio, dei sogni, del (doli) e dei pascoli templi. Gli abitanti di tutta la grecia anche costruiscono le Erme e statue di Mercurio, soprattutto ad Atene. Ma anche i galli, dice Cesare, onorano il dio Mercurio con altri dei e dee. I Galli sono dediti al commercio e chiedono il suo aiuto. Nessun dio prepara un (dolum) necessario al denaro e percorrono vie, senza alcun pericolo. Infatti Mercurio è anche il patrono delle vie."
una delle leggende legate a questo scaltro Dio è quella che lo vede agire contro Argo:Per nascondere a Giunone la vera indentità di Io, Giove tramutò la fanciulla in giovenca, ma la dea, gelosa della rivale, volle comunque ottenere l'animale in dono. Giove, per fugare ogni sospetto di tradimento, acconsentì alla richiesta, e Giunone pose la fanciulla sotto la sorveglianza di Argo. Il pastore aveva cento occhi, sparsi per tutta la testa, e grazie a questi riusciva a non dormire mai, poichè per riposare ne chiudeva solo due per volta, mentre gli altri rimanevano aperti. Dispiaciuto per la triste sorte che aveva causato alla fanciulla, Giove incaricò suo figlio Mercurio di liberarla. Per riuscire ad avvicinarsi ad Argo, il dio si camuffò da pastore: dopo essersi tolto l'elmo e le ali, e aver tenuto con sè solo la verga e la siringa, s'incamminò verso il custode suonando una melodia. Argo, affascinato dal suono, invitò il dio a sedersi con sé e Mercurio prese a suonare a lungo, raccontando al pastore la storia di Pan e Siringa, fino a che non riuscì a far chiudere per il sonno tutti i cento occhi. Allora il dio prese la spada e gli tagliò la testa, riuscendo così a liberare Io. Giunone, dispiaciuta per la triste sorte capitata al pastore, prese gli occhi dalla testa e li pose sulle piume del pavone, suo animale sacro.

Mercurio non divenne mai un dio importante per lo stato romano, tanto da non avere un flamine ma la sua popolarità era notevole e continuò a crescere con la crescita del commercio e della potenza di Roma.

La sua festa veniva celebrata il 15 maggio gli veniva offerto incenso, ed era usanza dei mercanti aspergere se stessi e le proprie merci con l’acqua che scaturiva da una fonte fuori porta Capena (aqua Mercurii).
Veniva rappresentato praticamente nudo, o ricoperto dalla clamide, recante nella mano destra una borsa di denari (crumena) e nella sinistra il caduceo nonché le ali ai piedi.

per completezza del racconto diamo anche visione alla sua controparte greca.

Ermete (in latino Mercurius, Mercurio), o Ermes, risulta essere figlio di Zeus e di Maia, una delle tante rappresentazioni della Madre Terra, e pare sia nato sul monte Cileno in Arcadia. La sua leggenda viene riportata da Apollodoro e da Aristofane. Veniva descritto come un giovane uomo con un elmo e sandali alati che impugnava un caduceo con due serpenti, a ricordo di quelli che un giorno si erano attaccati al suo bastone mentre cercava di dividerli.
In Ermes è riscontrabile la metafora dell’azione, della prassi, della capacità di concentrazione e attività. È probabile che originariamente si trattasse di una divinità di tipo fallico, di un “briccone divino” che stia a simboleggiare l’accoppiamento e il meccanismo della generazione.

La storia in definitiva è sempre la stessa, con il padre degli dei:Zeus si invaghì di Maia e la rese madre. Maia era figlia di Atlante e quando nacque il figlio lo portò sul monte Cileno e lo ricoprì con fasce e lo depose in un canestro istoriato. La Dea sperava di godersi l’infanzia del figlio, ma lui apparve subito diverso da tutti gli altri infanti: non appena posato nel canestro divenne subito un adolescente. La madre gli aveva appena voltato le spalle e si era assopita, che Ermes, già robusto e vitale, si diede alla fuga, allontanandosi della madre e dalle ninfe che gli facevano la guardia.
Fuggendo arrivò in Pieria. Lì erano custodite delle vacche di proprietà di Apollo, e il dio briccone le rubò e con uno stratagemma coprì la sua fuga. Quando Apollo scopì il furto promise una ricompensa a chiunque fornisse notizie sul furto. Intanto Ermes aveva nascosto le vacche in una grotta, sulle rive del fiume Alfeo, ed era tornato dalla madre, che ancora dormiva. venne scoperto come ladro della mandria di Apollo a causa del suo amore per la musica: Egli vide una tartaruga rovesciata e la prese. Quindi uccise alcune vacche della mandria e ne mise le interiora ad essiccare. Applicò alla corazza della tartaruga alcune corde ricavate della interiora inventando così la cetra. Toccò le corde con una scheggia e lo strumento emise suoni straordinari. Ermes prese a suonare dolcemente incantando la madre e dei satiri che risiedevano nella zona. Non appena questi videro la cetra capirono che era fatta con le interiora delle vacche rubate, perché in quella zona non esistevano mandrie. Pensarono di accusare il dio del furto, ma la ninfa che gli faceva da balia, Cillene, chiese come fosse possibile che un bambino così piccolo e ingenuo potesse commettere un furto così grave. I Satiri si convinsero e se ne andarono. Ma Apollo non si lasciò incantare, prese il bambino e lo portò da Zeus. Quest’ultimo, che amava Ermes per la sua furbizia e tenacia, allontanato Apollo con una scusa, invitò il bambino a dichiararsi innocente anche di fronte alle prove che lo incolpavano. Ma Apollo fu inflessibile e alla fine Ermes fu costretto a confessare, a chiedere perdono e restituire la mandria. Per placare l’ira del dio, Ermes ammise di aver ucciso alcune vacche, ma di averne sacrificato le carni in suo onore, e l’ira di Apollo si placò, inorgoglito per quel sacrificio.
Ermes lo condusse al nascondiglio secreto ed Apollo stupito dalle sue capacità, chiese di barattare la cetra con la mandria intera. Ermes accettò. Apollo stupito e divertito dall’abilità del giovane dio lo fece protettore dei mandriani, garantendogli l’autorità sulla divinazione con le pietre e donandogli il bastone (in greco kerykeion, in latino caduceus) come simbolo del suo potere. Ermete veniva stesso ritratto con un ariete sulle spalle ed era noto anche con il titolo di Nomios (pascolatore).
Ermes, privato del suo strumento musicale, si ingegnò per inventarne un altro; con una canna inventò il flauto, che risultò avere un suono più melodioso della stessa cetra. Apollo volle immediatamente possedere anche questo nuovo strumento e propose uno scambio a Ermes, che accettò lo scambio con un bastone d’oro che serviva per guidare le mandrie e chiese inoltre il segreto della divinazione. Apollo lo inviò dalle Trie, che erano state sue nutrici, per insegnargli a riconoscere gli avvenimenti futuri dall’analisi delle pietre ripetutamente gettate a terra.
Ermes chiese a Zeus di diventare il messaggero degli dei, ed questi lo rese protettore dei commercianti e dei viaggiatori, dei ladri e degli inventori. In regalo Zeus gli diede calzari dorati che gli permettessero di volare a qualunque velocità.
A questo punto Ermes volle riconciliarsi con Era poiché conosceva la sua crudeltà verso i figli di Zeus. Travestito da infante, si sedette sul suo grembo per farsi nutrire; in questo modo Era, consapevole o inconsapevole, divenne sua madre adottiva e si vide costretta a trattarlo con il riguardo dovuto a un figlio.

Le imprese di Ermes hanno tutte un carattere vitalistico. Il suo comportamento è fortemente immorale, disinteressato al problema etico, e porta, sin dalla nascita, lo scompiglio attraverso il furto e la menzogna. Lo riscatta la grande capacità fantastica. L’invenzione artistica rischiarata nella figura di Ermes ha una sua controparte buia. L’artista sembra quasi mischiarsi al peccatore o comunque all’immorale con lo spirito di conoscenza del mondo che è proprio del fanciullo.
La verga d’oro di cui il mito fa menzione, diverrà il simbolo di Ermes e spesso interpretata come simbolo della corrente sessuale. La verga d’oro viene considerata un simbolo della spina dorsale lungo la quale serpeggiano, come intrecciate, le due polarità fondamentali dell’espressione sessuale. Ed è forse alla luce di questa interpretazione che divenne anche il protettore delle puttane, rappresentanti della assoluta libertà sessuale e immoralità.

Per i suoi ottimi rapporti con Ade, Ermes viene considerato protettore della morte, nel suo ruolo di guida delle ombre alla dimora di Ade, e in questo simbolismo può essere confrontato col dio Anubi egiziano.
Ermes ebbe un gran numero di amori: tra le dee amò soprattutto Afrodite che gli generò Ermafrodito e Priapo. Dapprima la dea rifiutò la sua corte ma Zeus ebbe pietà di lui e mandò la sua aquila perché rubasse uno dei sandali d’oro della dea mentre si stava bagnando nel fiume Acheloo. Ermes si offrì di restituirle il sandalo in cambio dei suoi favori, e la dea accettò.
Con una ninfa o con la figlia di Driope, chiamata Penelope, generò Pan.

La figura di Ermes è la più esoterica nel panorama delle divinità greche proprio per il suo rapporto con la musica. La musica è sempre stata considerata di alto valore terapeutico in tutte le culture così dette primitive. Ermes, inventando la musica ed essendo il padrone del caduceo, si mostra come la divinità fondamentale del ritmo biologico e sessuale. L’interesse alla divinazione dimostrato da Ermes sarà una delle ragioni del suo culto esoterico.

FLORA DIVINITA' ROMANA

Flora è conosciuta come Dea della primavera e delle cose in fiore o che attendono di dare frutto, della floricultura, dei giovani, protettrice delle partorienti e delle meretrici.

Era una delle più antiche divinità del pantheon romano, e sovrintendeva alla primavera. Marco Varrone Paci racconta che fu lo stessoTito Tazio, ad introdurrne il culto in città, dedicandole un sacello in Campidoglio.

Il suo nome deriva dal latino Flos, Floris, fiore in italiano, ed era raffigurata come una donna giovane, spesso vestita di abiti estremamente colorati e con una corona di fiori tra i capelli, la sua descrizione è quella di una giovane dal carattere gioioso e ridente, con una spiccata inclinazione per la sensualità ed il piacere. Il suo culto era affidato ad un Flamine Floreale uno dei dodici flamini minori;il suo culto fu sempre molto popolare e le sue festività cadevano tra il 28 di aprile ed il 3 maggio, quando si svolgevano il Ludes Floreales, detti anche Floralia, celebrati con cerimonie sfrenate ed orgiastiche in cui era ammessa ogni lascivia, con profusione di scherzi e bevute. Le più fervide celebranti erano le donne di malaffare, che in questi giorni di libertà vedevano la loro figura imporsi su quella delle matrone che invece celebravano Cerere e che per le loro festività sceglievano il bianco. Per le festività di Flora invece le donne vestivano di vesti multicolori, mentre gli uomini si decoravano il capo con ghirlande di fiori. I primi giorni erano tutti una rappresentazione teatrale, un lungo festeggiare per le strade, un susseguirsi di orge e feste che coinvolgevano tutti. L’ultimo giorno si celebrava il circo al Circo Massimo, dove si dava la caccia agli animali domestici come capre e lepri, e si spargevano semi in segno propiziatorio.

Il carattere licenzioso dei Floralia, con l'esibizione delle prostitute che si denudano a teatro fra gli schiamazzi del pubblico, indicherebbe nella mentalità politeista romana-italica un legame metafisico tra la sessualità umana e la fertilità vegetale, per cui stimolando l'una attraverso il rituale sacro, si stimolerebbe anche l'altra.

Il suo tempio si trovava presso il Circo Massimo, al di fuori della cerchia sacra, ma era una divinità del popolo e questo ne rafforzava la vicinanza con la plebe.

Vi sono varie descrizioni dell’origine della Dea Flora. Ovidio ne fa una identificazione con la greca CLORI, ninfa e sposa di Zefiro
Oggi son detta Flora, ma ero una volta Clori; nella pronuncia latina fu alterata la forma greca del mio nome.
E, Clori, ero una Ninfa delle Isole Fortunate, ove tu sai che felicemente visse gente fortunata.
È difficile alla mia modestia dire quanta fosse la mia bellezza; essa donò a mia madre per genero un Dio.
Si era di primavera, e io me ne andava errando; mi vide Zèfiro, e io mi allontanai; prese a inseguirmi, e io a fuggire.
Ma fu più forte di me.
Borea, come aveva osato prendersi una donna nella casa di Eretteo, aveva dato al fratello ogni diritto di rapina.
Ma Zefiro fece ammenda della violenza dandomi il nome di sposa; non v'è alcun motivo di lamento nel mio letto coniugale.
Io godo di eterna primavera; l'anno è sempre fulgido di luce, gli alberi son ricchi di fronde la terra rivestita di verzura.”

Mentre Lattanzio sostiene che Flora fosse una meretrice che aveva lasciato il proprio patrimonio in dono al popolo di Roma, il quale, riconoscente, avrebbe istituito i Floralia. In quest’ultimo caso c’è una certa confusione con il mito di Acca Larentia.

Flora fu dunque molto importante a Roma: secondo Plutarco sembra perfino che il nome segreto di Roma fosse proprio il nome della dea. L’ipotesi è avvalorata dalla tesi secondo la quale Firenze, città fondata dai romani nel 59 a.C. portasse il nome di Florentia, che significa “città sotto la protezione di Flora” laddove “sotto la protezione di Flora” sta per “sotto la protezione di Roma”.

Di flora comunque si sa anche al di fuori delle genti romane, presso i Sabini ed i Vestini, presso i Sanniti dove viene menzionata nelle tavole di Agnone.

giovedì 13 agosto 2009

TOILETTE MATTUTINA DELLA DONNA ROMANA

Il risveglio dell'antica romana era di solito alle prime luci dell'alba, quando la vita nell'Urbe riprendeva nel pieno dei suoi ritmi causando un rumore assordante. In camera da letto si sostava ben poco, essendo questa un ambiente piccolo e poco accogliente: lo scarso arredamento del Cubiculum comprendeva di solito il letto (cubile) una cassa per gli indumenti e le cose personali (arca) il vaso da notte (lasanum) ed uno scendiletto (toral) che completava l'arredamento.
L'uso era di andare a letto con gli indumenti, quindi era ben poco quello che si doveva provvedere a mettere addosso una donna prima di uscire, giusto la palla e la tunica, che venivano sistemate accuratamente; solo che prima di presentarsi al mondo si doveva sottostare alla lunga e complessa trafila della toilette mattutina.

Si cominciava con la cura dei denti utilizzando un dentifricio a base di soda e bicarbonato di sodio; per soprassedere su chi, pur di avere un sorriso smagliante ricorreva all'uso di polvere di pomice, mastice di Chio o addirittura di urina.

Dopodiché si cominciava la cura della pelle con delle maschere di bellezza che, come da credenza di quei tempi, erano più efficaci se a base di sostanze organiche. E quindi ecco ricette a base di : corna di cervi; escrementi di pennuti; placenta, genitali e fiele; sterco ed urina di vitelli, mucche e tori, di asini e pecore; topi. Tutti questi ingredienti per acquistare le loro prerogative di cura andavano mescolati da mani sapienti con olio, grasso d'oca, succo di basilico, semi di origano, biancospino, zolfo, miele ed aceto. Una ricetta alquanto curiosa ci è giunta da Galeno, che decantava le grandi doti di una maschera a base di sterco di coccodrillo. Meglio allora quella a base vegetale, sempre da lui consigliata, a base di miele, incenso, acanto, legno di cipresso e leccio, melone ed un'alga rossa.

Ma altre se ne conoscevano, ricavate da lenticchie, miele, orzo, lupini, finocchio con aggiunta di essenze di rosa e mirra.

Importantissima poi sembra fosse la modalità di applicazione per ottenere il vero effetto richiesto: pare, ad esempio, che la maschera di urina di asina facesse effetto solo se applicata nel momento in cui sorgeva la costellazione del cane.

Mentre la maschera faceva il suo effetto, si procedeva alla depilazione, perché una donna affascinante doveva avere un corpo in cui non fossero presenti "ispidi peli pungenti", come lo stesso Plinio il Vecchio ammonisce.

A questo fine nulla di superfluo doveva essere lasciato né sulle gambe né sotto le ascelle o in altre parti del corpo, quindi si ricorreva all'uso di cerette depilatorie e creme: il "psilothrum" e il "dropax" erano composti a base di pece greca, resina, cere e sostanze caustiche, disciolte nell'olio. Inoltre si ricorreva alle pinzette, chiamate "valsellae", di solito in metallo, ma ritrovate anche in oro ed argento, di varie misure e fogge, con cui si inseguivano e debellavano anche i peli più indomiti.
Finita anche questa parte della preparazione si poteva passare al trucco vero e proprio.
A questo scopo le matrone romane potevano contare su un ricchissimo arsenale di belletti, profumi, balsami e unguenti, alla cui preparazione una schiera di "unguentarii" era adibita, presso i loro ricchi e ricercati negozi posti nell'Urbe, concentrati nel Vicus Thotiarius e nel Vicus Unguentarii, al Velabro.

I vari tipi di belletti erano conservati in particolari scatolette equiparabili ai nostri odierni beauty-case, ma molto più decorati e ricercati, tenuti come fossero piccole casseforti, perché racchiudevano i segreti di bellezza delle loro proprietarie.

Al suo interno, boccette in vetro soffiato, in pasta vitrea, in terracotta ed alabastro, conchiglie ed ambra, erano i contenitori per le magiche sostanze che abbellivano le donne.
Si cominciava con una base di fondotinta, principalmente composta da biacca o carbonato di piombo mescolato a miele o ad altre sostanze grasse, e posto sulla pelle così o colorato con salnitro, feccia di vino o ocra rossa, quindi spalmato uniformemente in uno strato piuttosto spesso.
Queste sostanze erano assolutamente tossiche, e la cosa era ben nota alle romane che però non avevano nessuna intenzione di rinunciare alle loro ricercate e costose sostanze per rendersi belle, suscitando in questa loro ossessione le critiche sarcastiche di poeti e commediografi latini, che non lesinano velenose e sarcastiche critiche a tali costosissime pratiche femminili.


"Riccioli, trucco, belletto, cerone e denti hai comprato. Con la stessa spesa compravi una faccia nuova", commenta Lucilio sin dal II secolo a.C., ben poco cavallerescamente, nel XVI libro delle sue Satire.

Marziale non è meno caustico: "Ovunque tu passi, fai pensare che Cosmo (ndr, Cosmo era il più noto profumiere contemporaneo a Marziale) stia traslocando e che essenze profumate escano a profusione da un flacone agitato. Non mi va, Gellia, che tu prenda gusto a queste sciocchezze straniere. Lo sai che il mio cane potrebbe essere così profumato!" (Epigrammata, 3,559).


Ovidio non pare più conciliante anche se è prodigo di consigli.

"Ma che l'amante non vi colga mai con i vasetti delle vostre creme. L'arte che vi fa belle sia segreta. Chi non vi schiferebbe nel vedervi la feccia cosparsa per tutto il viso, quando vi scorre e sgocciola pesante tra i due tiepidi seni? E che fetore l'esipo (ndr, tipo di lanolina) emana, rozza spremitura del vello immondo di un caprone, fetido anche se viene da Atene! E non vi approvo quando v'applicate in pubblico misture di midollo di cerva o vi fregate davanti a tutti i denti. Queste cure fanno belle, ma son brutte a vedersi. Spesso ciò che ci piace, piace quando è fatto, mentre si fa dispiace." (Ars amatoria, 209-218).


Come detto tutte queste frecciate velenose in nulla scoraggiavano le matrone, che continuavano la loro preparazione marcando le sopracciglia con antimonio polverizzato, detto "stibium" o con nerofumo, "fuligio", truccando le palpebre con ombretti verdi, prodotti con la malachite, ed azzurri, frutto dell'azzurrite polverizzata. Per le labbra invece i rossetti erano ricavati dal gelso, dal fuco, da estratti animali e vegetali, o da sostanze minerali,come il cinabro, il minio ed il gesso rosso.

Per dare un tocco di salute, come si diceva una volta, sulle guance si stendeva una terra rossa che conferiva pomelli coloriti in contrasto piuttosto netto con il bianco del resto della pelle.

Il trucco, la preparazione, la stesura di queste sostanze, era affidata alle esperte mani delle "Cosmetae", schiave appositamente istruite che di volta in volta sceglievano i trucchi più adatti all'abito della padrona, scioglievano i vari ingredienti con la saliva e mescolavano il tutto in piccoli recipienti aiutandosi con speciali spatoline, cucchiai e miscelatori in legno, osso, avorio, vetro e metallo.

Il tocco di classe finale erano un piccolo neo dipinto sull'angolo della guancia ed una spruzzatina di lustrini sulla pelle per farla risplendere.


Una discussione a parte meritano i profumi impiegati: non si conosceva ancora il metodo della distillazione, quindi le essenze erano ottenute per spremitura e macerazione, mediante un bagno delle sostanze da cui estrarre l’essenza, in olio di olive verdi o di succo di uva acerba, assieme a coloranti per dare un bell’aspetto agli olii. Alcuni dei profumi erano particolari per i nostri gusti, come il Rhodium, l'essenza derivata dai petali di rosa, l'Illirium e il Susinum ottenuti con varie specie di gigli pompeiani, il Mirtum-laurum dal lauro e dal mirto, il Melinon dalle mele cotogne, lo Iasminum dal gelsomino. Dall'Egitto proveniva il Metopium, tra i cui ingredienti figurava anche il costosissimo "Balsamo di Giudea". Da far notare che le essenze raggiungevano prezzi proibitivi già dal I secolo d.c., quando una libbra di profumo costava anche più di 400 denari. Uno scandaloso spreco, a detta di Plinio, poiché simili ricchezze venivano dissipate "pro fumo", senza alcun effetto se non quello di appagare il piacere altrui, dato che "chi è profumato non si accorge di esserlo".


Ma non si creda che il lavoro delle schiave fosse a questo punto finito. Perché anzi si può dire che qui veniva la parte più complessa, cioè la preparazione della capigliatura della matrona per affrontare il mondo. La cura di questo particolare settore era affidato alle "Ornatrix", costrette a curare con cura maniacale impalcature di riccioli, trecce, nastri e spilloni, sperando di soddisfare a pieno le loro padrone, pena le più folli ire delle pretenziose matrone. Furono vari i tipi di acconciature che si susseguirono nei secoli: dai capelli semplicemente pettinati all’indietro, stretti sulla nuca o divisi in ciocche gonfie (pettinatura a melone) dell’inizio dell’età imperiale, alle lavoratissime elevazioni coperte di riccioli ottenuti con un ferro rovente, il Calamistrum.

Dal secondo secolo d.C. in poi si aggiungono diademi, nastri, spilloni d’oro ed argento, questi ultimi soprattutto cavi all’interno, a volte contenenti veleno, ed usati anche come difesa ed offesa, ed una rete in fili d’oro che serviva a raccogliere i capelli dietro, e che quando mancava poteva essere sostituita con nastri e coccarde.

Quando erano molto fortunate, le ornatrix disponevano di una padrona calva che quindi ricorreva all’uso di parrucche, sempre elaboratissime, ma che potevano essere preparate con calma e senza una testa sotto che si lamentasse, per la lunghezza del lavoro e per il dolore di qualche manovra. I capelli erano importati dall’India (quando neri) e dal nord Europa (quando biondi).

Si ricorreva anche all’uso di tinture, sia per le parrucche che per le povere teste, utilizzando minerali derivanti dall’antimonio nero, unito a grassi animali, o cenere di assenzio con olio di rosa e infusi di foglie di cipresso intrise nell’aceto per ottenere il nero ed il bruno. Il rosso si otteneva con l’hennè, mentre di origine gallica era la pozione che rendeva bionde le chiome, ricavata da grasso di capra e cenere di faggio. Colori particolari come il turchino o il carota erano appannaggio delle meretrici.

Una nota di colore se la concedevano anche gli uomini, specie il biondo, o addirittura una spruzzata di polvere d’oro, come faceva lo stesso imperatore Commodo.

A questo punto avendo completato la vestizione prima di uscire ci si agghindava con i gioielli, per dare il tocco finale.

Nel periodo repubblicano qualsiasi tipo di lusso era vietato dalla legge, vivendo in una austerità di costumi ed usi, ma nel 193 a.C. le donne si coalizzarono contro questa durezza ottenendo un ammorbidimento degli usi tanto che alla fine Giulio Cesare promulgò una legge che regolava l’uso delle perle.

Gli orefici, che con la fine dell’età repubblicana si moltiplicarono, iniziarono lavorando su disegni greci ed etruschi. Gradualmente questi artigiani perfezionarono la loro arte, importando lavoranti dall’oriente, usando tecniche diverse e materiali importati. Questi si dividevano in Caesellatores, Inauratores, Anularii, Bractearii (questi ultimi battevano foglie di oro sottilissimo tra due strati di cuoio) e Margaritarii ( che si occupavano della lavorazione con le perle). Ed oltre alle perle si introdusse l’uso di rubini, smeraldi, diamanti, topazi, acque marine, pasta di vetro, ambra proveniente dal baltico.

Più erano ricche e potenti le matrone, più i gioielli che portavano dovevano mostrare questa loro importanza. La terza moglie di Caligola, Lollia Paolina, si presentò ad una manifestazione con svariati gioielli che dovevano avere un valore complessivo che si aggirava sui 4.000.000 di sesterzi, come ci racconta Plinio il Vecchio.

I gioielli più usati nel mondo antico erano gli anelli, i bracciali, gli orecchini, le spille e le collane. Dopo l’introduzione del culto della dea Iside, si usò spesso l’effige del serpente, in bracciali in oro, realizzati con tanto di squame ed occhi in pasta di vetro o pietre preziose, da portare sull’avambraccio o come anelli.

La collana comunque era il monile più importante, essendo il primo ad essere visto, posto com’è sul petto della matrona. Le maglie potevano essere ad anelli più o meno grandi oppure a matassine di fili intrecciati tra loro, o formate dalla piegatura di nastri d’oro ed argento. Potevano essere corredate da castoni di pietre preziose o monete d’oro, e terminare con un pendente grosso e pesante che dava un senso di equilibrio e stabilità alla composizione. Queste collane potevano raggiungere anche i 40 cm, ed erano sicuramente pesanti.

In una tomba è stata rinvenuta una collana di due metri e mezzo del peso di un chilo usata come cintum, con intrecci particolari attorno al petto, alle ascelle e alla vita. Gli orecchini erano realizzati di qualsiasi tipo e foggia: avevano forma di animale, cuori, anfore, visi, soli, mezze lune, rosette e quanto d’altro. Famosissimi i Crotalia, costruiti da più pendenti che terminavano con una perla, chiamati così per il rumore che producevano le perle sbattendo tra di loro con il movimento.

E alla fine si era pronte per uscire, ma non ci si illuda che fosse tutto finito così. Anche perché a questo punto ci si recava alle terme per fare finalmente le abluzioni, quindi il trucco era destinato a rovinarsi. A questo scopo i trucchi erano contenuti in cassette, in modo da seguire la matrona nei suoi spostamenti. Il trucco si faceva alla mattina, si rifaceva dopo le terme e si sfaceva a sera, prima di andare a letto, ma dei metodi usati per togliere quel pesante strato non ci è giunto nulla quindi è probabile che usassero acqua e oli, per ricominciare con le maschere di bellezza.





mercoledì 5 agosto 2009

VISITANDO: IL Museo Archeologico Nazionale di Villa Giulia

Quello di Villa Giulia è uno dei maggiori musei archeologici dedicati alla cultura Etrusca, unita ai reperti di quella Falisca, ed è una visita da fare assolutamente per chi è interessato a questi argomenti.
Al suo interno sono raccolte testimonianze di queste due culture nel periodo che va dall'età del ferro all'epoca romana, soprattutto nella zona compresa tra il Tevere e la Toscana. I materiali che vi si trovano esposti sono messi secondo un criterio topografico con zone che comprendono Vulci, Bisenzio, Veio, Cerveteri e Pyrgi, oltre a un paio di ambienti dedicati a Palestrina e all'Umbria.
Il museo nel suo insieme è una esperienza veramente unica, ma le sensazioni che si provano di fronte ad alcuni dei reperti più famosi della storia dell'archeologia etrusca sono assolutamente indescrivibili.
Sto parlando in particolare del "Sarcofago degli Sposi" un'opera unica di una maestria
superba che emoziona per la finezza della lavorazione, per il senso di pace che trasmettono quei volti alteri, e per la conservazione perfetta che ha fatto giungere fino ai giorni nostri un capolavoro assoluto.
Vi è poi "l'Apollo di Veio":
la statua in terracotta policroma è uno dei capolavori dell’arte etrusca della fine del VI secolo a.C, un altra opera mirabile che ci trasmette una messe di informazioni veramente unica, sia sullo stile di scultura e colorazione del periodo che sull'abbigliamento dell'epoca. Un'opera di una forza espressiva e di una plasticità emozionante che lascia incantati.
Infine, ma non certo per importanza, vi sono
le "Lamine d'Oro di Pyrgi", sorta di stele di Rosetta, e che, riportando scritte in etrusco ed in fenicio, aiutano la comprensione di una lingua che finalmente si va sempre più scoprendo, cioè quella scritta etrusca.
Nella loro delicatezza, e fragilità sono di un valore così alto che non traspare dal semplice vedere quelle piccole lastre incise, ma che ci riportano ad un tempo antico e che ci aprono le porte alla sua comprensione.
Però so
no infiniti gli oggetti su cui si possono perdere ore in attenta osservazione per la loro finezza e la loro bellezza: i cinerari a capanna sormontati da ochette da Vulci, il corredo in bronzo della tomba dei Quattro Fontanili a Veio, il carrello cerimoniale e il cinerario con figurine danzanti sulla spalla e sul coperchio, da Bisenzio, il famoso bronzetto sardo omaggiante da Vulci, la splendida kotyle aurea con anse decorate con figure di sfingi rifinite a granulazione, insieme a tutti i preziosissimi corredi in oro, argento, avorio e bronzo del complesso tombale di Preneste, le prime produzioni di bucchero e i primi vasi etrusco-corinzi. E potrei andare avanti per pagine a descrivere gli splendidi reperti, ma è molto meglio andare a vederli di persona.


In aggiunta, in questi giorni, e fino a Settembre, si tiene nelle sale anche una connessione con il mondo del fumetto che ha provato a rendere popolare la cultura del passato portando sulle pagine di un libro a fumetti alcune storie di ambientazione etrusca: devo dire che non amo molto lo stile in cui sono fatte, ma che apprezzo lo sforzo che magari permetterà una migliore e maggiore fruizione di un tesoro così immenso del nostro passato.

Buona visita.

VISITANDO: il museo archeologico di Grosseto

In questi giorni a Grosseto, presso il museo archeologico locale - un museo che assicuro essere bello da visitare a prescindere - si sta tenendo una mostra molto interessante.
Si tratta della mostra "I SIGNORI DELLA MAREMMA: ELITES ETRUSCA TRA VETULONIA E VULCI".
L'esposizione è posizionata su due sale ai lati dell'ingresso (e dispiace siano solo due) e mette in mostra in un ambiente studiato e suggestivo, con luci basse e musiche di sottofondo, duecento reperti provenienti dai siti archeologici della Maremma, di solito conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, e, soprattutto, di solito non esposti al pubblico.
Si tratta di pezzi unici, assolutamente splendidi che narrano della vita e della morte dei prìncipi etruschi durante il periodo di massimo splendore dei Rasna, detto "periodo orientalizzante" compreso tra il VII e il VI sec. avanti Cristo.
Parliamo di un periodo particolare in cui si affacciano le piccole aristocrazie nei centri etruschi della Maremma, ed in cui l'influenza orientale diventa importante entrando nel gusto di tutti i giorni, sia per il vestire che per i decori che ancora oggi possiamo ammirare.
Per mostrare questi influssi, rintracciabili oggi nelle tombe di quegli antichi prìncipi, sono stati presi in esame alcuni siti, ognuno a suo modo esemplare, posti nel territorio tra l'alta e la bassa Maremma: Populonia, Vetulonia, Roselle, La Marsiliana, L'Albegna, Pitigliano- poggio al Buco.
A coronamento della mostra è stato pubblicato un bellissimo catalogo, a colori, corredato di fotografie e con schede di descrizione dedicate ad ogni oggetto presente nell'esposizione, con tutte le notizie sulla data di ritrovamento, di realizzazione, la provenienza ed il luogo di attuale conservazione.
Il volume è venduto direttamente nel book store del museo al prezzo di 20.00 euro, ma posso assicurare che ne vale la pena e che non può mancare nella libreria di un novello archeologo per passione.
Buona visita e buona lettura

martedì 23 giugno 2009

UNA CARRELLATA SULL'ABBIGLIAMENTO NELLA ROMA ANTICA

Innanzi tutto vorrei assicurarvi che non intendo tediarvi con una specie di lezione noiosa e saccente. Essendo il primo post di questo blog farò giusto una veloce escursione nella moda al tempo di Roma antica, spaziando un po avanti ed indietro nei secoli, giusto per dare un idea degli argomenti.

Prima, però, vorrei parlare di quello che mi ha condotto a queste pagine e cioè della ricostruzione storica: per chi la sente come importante è qualcosa da prendere con la dovuta serietà e con la dovuta attenzione. La ricostruzione è qualcosa che va al di là del copiare da una statua o da un quadro l’immagine che vediamo, vuol dire cercare di dare nuova vita ad un periodo storico particolare studiandone tutto, dai particolari più insignificanti alle grandi evidenze storiche.
Si tratta di uno sforzo filologico e di ricerche che coinvolgono vari campi: non si può scindere la ricerca nell’abito dalla ricerca dei vari tipi di stoffa adottati nell’epoca storica in questione, del tipo di coloranti che venivano impiegati, del tipo di tessitura e di cucito, nello studio dell’applicazione di quel tipo di schiavo a quella particolare opera, dell’economia che porta a un tipo di importazione invece che ad un altro e così via. Sono tutte cose concatenate tra di loro che solo nel loro insieme possono giustificare una reale ricostruzione storica, e per avere un buon risultato si deve cercare di essere quanto più fedeli possibile alla realtà del tempo, altrimenti diventa fatuo tutto il lavoro svolto.

Partiamo dicendo che parlare di moda nell’antica Roma è forse un po’ generico oltre che eccessivo: generico, perché la storia di Roma è lunga ed ogni periodo ha delle sue prerogative specifiche che permisero nuove importazioni e quindi un implemento della moda in se stessa; eccessivo perché la parola moda indica delle variazioni nell’uso dell’abbigliamento che per lungo tempo non ci sono state .
In realtà il taglio del vestito tipico romano, per molto, moltissimo tempo, è stato di una semplicità e di una omogeneità tra maschi e femmine da essere quasi disarmante, se non fosse che vi erano molte altre particolarità che poi ne facevano un capo estremamente simbolico e rappresentativo.

Nel primo periodo della storia romana, fin quasi al 500 avanti Cristo, Roma viveva dei suoi prodotti oltre che delle conquiste circoscritte ai territori confinanti, e la disponibilità di tessuti era limitata. Le stoffe erano in lana di pecora o fibre vegetali locali, filate con una maestria che ancora oggi lascia sorpresi, riuscendo ad ottenere tessuti di una leggerezza sbalorditiva che non erano di impaccio nemmeno in estate.
La stoffa era un bene estremamente ricercato, specie se ben lavorata, e di prezzo anche piuttosto elevato; quindi spesso i vestiti a disposizione erano pochi e cuciti direttamente dalla padrona di casa, la matrona, o dove era presente dalla schiava a questo adibita.
A questo fine i tagli sulla stoffa erano ridotti al minimo per utilizzare al massimo la pezza a disposizione, che era usata quasi interamente nella sua larghezza, per confezionare la serie di vestiti di cui si necessitava.
I capi di abbigliamento del periodo erano :

1. per l’uomo la tunica, di due tipi, la
* la subucula e la exterior; tunica portata a pelle con cui si dormiva anche e che costituiva la biancheria intima
* la toga che prende origine dalla clamide greca affinandone ed evolvendone l’uso simbolico sino ad acquistare il potere di indicare il vero romano.
2. Per la donna e un po più complesso l’elenco, ma vediamo nel particolare di cosa si tratta.
* A pelle, le donne portavano uno strophium (alla greca) o mammillare o ancora fascia pectoralis, una specie di reggiseno, ed il subligar, una specie di perizoma usato da uomini e donne, anche se sembra che fosse indossato più che altro ai bagni.
* la tunica, molto simile a quella maschile ma dotata di scollo circolare o a V e lasciata lunga fin sotto al ginocchio; nei periodi freddi dell’anno le tuniche potevano essere anche due o tre, sempre del tipo subucula, cioè intime o a pelle; potevano avere anche un pezzetto di manica, anche se tale uso della manica sembra piuttosto tardo.
* Sopra si poteva mettere una amictus, una sopravveste che andava a nascondere le vesti intime e che era molto simile alla tunica ma più lunga.
* Nella Roma primitiva le donne portavano la toga come gli uomini, come riporta Varrone in uno dei suoi scritti, ma ben presto i costumi andarono distinguendosi e la toga venne imposta alle donne solo come segno di impudicizia o di facili costumi.
* Sopra questa veniva posta la stola: lunga e larga era una specie di tubo di stoffa senza cuciture nella parte superiore. Veniva fissata alle spalle ed alle braccia con dei cammei e delle spille, che ne aiutavano anche la copiosità di pieghe, che coprivano e decoravano il corpo della donna. La stola era una parte dell’abbigliamento che mostrava il rango di chi la indossava e più era ricca, decorata e fine e più chi la portava era di classe elevata. Al suo orlo era posto un bordo decorato, l’istita, di cui però si sa la presenza ma non lo spessore, dato che alcuni autori ne parlano come di una tenuissima fascicola mentre altri la qualificano come longa.
* Per modellare la stola sul corpo si ricorreva all’uso di un cingulum, una cintura che poteva essere di stoffa, di pelle o di fibre naturali,liscio o decorato con oggetti in metallo o pietre dure, specie nella tarda età romana, e che passando attorno al corpo ed attorno al seno fissava la stola e modellava la figura. L’uso della cintura era assolutamente richiesto, tanto che solo malfattori e prostitute non ne usavano ( ed erano definiti discinti) mentre ne era dispensata la donna gravida (incinta appunto) che però spesso comunque ricorreva ad una striscia di tessuto portato sotto il seno, conosciuto anche come zona.
* Per coprire il tutto infine, nelle uscite, la matrona dell’epoca più remota poteva impiegare il ricinium, un semplice mantello quadrato che portava sulle spalle e forse sul capo. Questo capo venne nel tempo sostituito dalla palla.
* Le pieghe dell’abito erano fondamentali, ma ancora più importanti erano le pieghe della palla, un taglio di stoffa rettangolare che copriva completamente la donna, compreso il capo, e che ne contornava il corpo con varie pieghe e ritorni tenuti su dalle braccia. Era molto importante e ricca, tanto che spesso una schiava era addetta alla cura delle pieghe del tessuto anche mentre la matrona era a passeggio per evitare che si sciupasse l’insieme e divenisse sconveniente.


Come ho detto prima, la stoffa iniziale da cui tutto questo veniva tratto era fatta di lana di pecora o di alcune fibre vegetali, tra cui una specie di lino locale coltivato dagli Etruschi, e veniva lavorata più o meno pesante a seconda del periodo in cui doveva essere indossata.
Con il procedere delle conquiste romane molte furono i tessuti che si andarono ad aggiungere a questi, e che vennero richiesti soprattutto dalle più alte classi sociali. Primo arrivò il lino dall’Egitto, quindi con l’età imperiale arrivarono anche i tessuti di cotone e di seta, entrambi costosissimi perché importati direttamente dall’India e dalla Cina. Nelle regioni più fredde si usavano anche pellicce con cui bordare o confezionare i mantelli, o feltro, sia per scarpe e cappelli che per capi di abbigliamento.
Va sempre ricordato comunque che le stoffe, erano un bene prezioso e che, quindi, a parte il non possedere un gran numero di capi e spesso, nel caso di famiglie meno ricche, il tessere le proprie tele, solo i più ricchi avevano vesti di stoffe raffinate; solo la famiglia dell’Imperatore o dei nobili più abbienti si potevano permettere la seta o la cotonina indiana, mentre le altre famiglie benestanti si dovevano accontentare del lino, che per quanto caro era più a buon mercato.
Le popolane o comunque i ceti medi e medio bassi avevano la lana lavorata finemente, o la canapa, con cui si facevano anche le tuniche per gli schiavi, o ancora la juta.

Passiamo a prendere in considerazione i colori che venivano impiegati nell’abbigliamento.
In età repubblicana, gli unici colori che si possono incontrare sono quelli naturali dei tessuti ed i colori della lana lavata e schiarita con particolari procedimenti che impiegavano l’ammoniaca nel loro interno.
Con il procedere delle conquiste, si ha un arricchimento anche in questo campo, sia per lo studio e l’utilizzo di sostanze presenti sul territorio, come insegnano gli Etruschi (e loro erano considerati i più ferrati nella moda), estremamente ricchi di decorazioni e di accessori, sia per l’importazione di sostanze che coloravano i tessuti.
Il colore principe nella storia romana, e per principe si intende anche la designazione che dava il colore, era il porpora, importato dai Fenici; la sua preparazione richiedeva la lavorazione di un particolare mollusco, il MURICE, ma necessitava di grandi quantità di animali per poter produrre una minima quantità di colore. Proprio per questo il clavus, la banda color porpora che indicava l’appartenenza ad un determinato ordine, era una cosa estremamente costosa da ottenere.
La tintura dei tessuti era praticata soprattutto in Medio Oriente, anche se con caratteristiche diversificate: i veri maestri della tintura furono gli Egizi, che tingevano il lino con i colori ricavati da diverse piante: l'hennè, il cui colore veniva utilizzato anche in cosmesi per tingere i capelli; il cartamo, dal quale si ricavavano il giallo ed il rosso, lo zafferano, che dava vita al giallo in varie gradazioni; mentre l'azzurro veniva estratto da alcune specie di Indigofera, dal lapislazzuli e da alcuni Sali.
I Cinesi tingevano la seta con il cartamo (giallo e rosso), il mirtillo (blue e lilla), il sommaco (giallo) e l'indaco, ma anche con altri colori naturali la cui provenienza rimane a tutt'oggi un affascinante mistero.
Gli antichi popoli italici vennero a conoscenza delle tecniche di tintura mediante i traffici commerciali: così, i Tarantini divennero esperti nella tintura con la porpora e l'oricello, un lichene; gli Etruschi utilizzavano la robbia, il pastello, il guado e lo zafferano.
In Roma, abbandonata la rozza austerità dei padri fondatori della Repubblica, nel II Secolo a.C. la tintoria era talmente evoluta, che si contavano diverse corporazioni a seconda delle sostanze usate per tingere le stoffe: i Crocearii (giallo), i Violarii (viola), le Officinae Purpurinae (porpora).
I colori maggiormente usati a Roma erano l'azzurro ricavato dalla malva, il giallo, ricavato dalla reseda, la curcuma e la ginestra, i bruni ed i neri, derivati dal mallo di noce.
Nel periodo più prossimo, si acquista l’uso di decorare i bordi delle palle con disegni tono su tono, motivi geometrici, animali o corpi umani, ma stilizzati, mentre i più ricchi da sempre avevano la possibilità di usare bordi decorati anche con fili d’oro e argento ma solo i bordi.

Chiudiamo infine con una rapida carrellata sui tipi di calzature usate.
Si deve sempre pensare che la moda dei Romani fin dall’inizio venne fortemente influenzata sia dai Greci sia dagli Etruschi, due popolazioni estremamente più evolute a livello stilistico e in breve tempo assorbite dalla nascente cultura romana.
La pelle aveva già nel periodo regio una fiorente lavorazione tanto da richiedere la presenza di una corporazione, quella dei Coriarii, preludio di quelle che andranno poi formandosi di nuovo nel medioevo. I Coriarii erano specializzati nella concia delle pelli con varie sostanze, come l’allume, varie materie grasse e sostanze vegetali.
Le prime calzature dei romani furono le solae, primitivi calzari costituiti da suole di cuoio allacciate alla gamba da corregge e che in seguito divennero calzature da casa come i socci, delle pedule di feltro.
Successivamente il gusto si fece più ricercato, e per uscire i romani usarono i Calcei, suole senza tacco, con uno spessore di circa 5cm, con tomaie di pelle morbida che ricoprivano tutto il piede. Dai lati di ogni suola partivano delle larghe strisce che si incrociavano e venivano annodate sul dorso del piede mentre altre, più sottili andavano sul tallone e si avvolgevano alla caviglia dove venivano annodate con le estremità pendule decorate da monili in avorio a forma di mezzaluna.
Le donne spesso portavano una specie di ciabatta infradito, tipo la krepis greca, o in alternativa dei sandali, le crepidulae, adottati soprattutto dalle classi agiate e formati da una serie di strisce di cuoio che coprivano interamente il piede fino alla caviglia e che a seconda della ricchezza e dell’elevazione del rango potevano essere più o meno decorate, fino addirittura ad avere le suole in oro o argento. Portavano anche calzari simili a scarpe basse, ma senza tacco. Un altro tipo di sandali erano le urinae, in pelle bovina schiarita.
Contadine e popolane portavano zoccoli o i perones, scarpe dalla suola senza tacco, con tomaia in pelle alta alla caviglia allacciata al dorso del piede con fibbie e stringhe e che potevano essere portate a piede nudo o con una specie di calzino di feltro.
Schiave e proletarie portavano zoccoli di legno, le sculpoeae, mentre i campagnoli potevano avere anche gli adone, suole rettangolari con lunghe cinghie di cuoio che le assicuravano ai polpacci protetti da pezze di lana o di feltro.
All’epoca del tardo impero le matrone adottarono dei sandali dorati o degli stivaletti al polpaccio, in cuoio allacciato.
Le scarpe romane potevano essere lucidate con cera d’api e colorate con zafferano per il giallo, sali ferrosi o tannini per il nero, guado (isatis tinctoria) per l’azzurro e porpora o oricello (rocella tinctoria) per il rosso (tipico delle calzature più lussuose).
Le tomaie erano cucite con lino e unite alle suole con strisce di cuoio, tendini o budello ritorto.